La definizione di persona in Boezio e San Tommaso


 

Nell’ambito della storia del concetto di persona, occupa un ruolo fondamentale la definizione di Boezio: “naturae rationalis individua sustantia”.
Non si tratta propriamente di una definizione nel senso inteso attualmente dalle scienze moderne, quanto di una sistematizzazione di termini usati fino a quel momento, che a loro volta presuppongono una comprensione filosofica della realtà ritenuta sufficentemente accettata da tutti.
Tale definizione viene elaborata nel trattato “Liber de persona et duabus naturis contra Eutychen et Nestorium”, che come dice il titolo, attraverso una chiarificazione dei termini, vuole evidenziare gli errori delle due eresie (una sola natura in Cristo per Eutiche e due nature e due persone per Nestorio) mostrando in quali aspetti ritiene che abbiano sbagliato.
Il suo trattato consta di una introduzione e di otto capitoli: il primo tratta della definizione di natura, il secondo della definizione di persona, il terzo considera le relazioni tra di esse, il quarto confuta l’eresia di Nestorio, il quinto e il sesto quella di Eutiche ed infine il settimo e l’ottavo espongono ulteriori chiarimenti sul dogma dell’Incarnazione di Cristo.

Accanto al problema della definizione dei concetti, Boezio si trova di fronte anche al problema di chiarire e conciliare tra loro i termini filosofici greci e latini, per i quali una traduzione superficiale comportava l’aggiunta o la perdita di significati importanti: in particolare il termine “ipostasis”, usato a volte per tradurre “persona” era impiegato più propriamente per tradurre “substantia”.
Per cercare di mettere chiarezza nelle traduzioni, Boezio utilizza queste corrispondenze: “ousìa” viene tradotto con “essentia”, “ousiosis” viene tradotto con “subsistentia”, “ipostasis” con “substantia” ed infine utilizza “prosopon”  per indicare “persona”.
La traduzione del termine “persona” con “prosopon” era stata storicamente già realizzata a livello giuridico; anche a livello teologico, prima S. Gregorio Nisseno e poi S. Gregorio Nazianzeno avevano utilizzato questa corrispondenza, affermando di fatto l’equivalenza tra “prosopon” e “ipostasis”, togliendo al primo dei due termini una possibile connotazione sabelliana.
Senza la precisazione di Boezio, l’utilizzo del termine “ipostasis” senza ulteriori specificazioni per tradurre “persona” poteva comportare equivoci, poichè “ipostasis” di per sè significa sostanza; ma sostanza poteva essere intesa in molti modi, non solo come sostanza individuale (nel senso di unica e incomunicabile), come intendevano anche i Padri Cappadoci, bensì poteva essere intesa anche come sostanza universale o generica, soprattutto in ambito platonico o neoplatonico.
Da un punto di vista filosofico, il ritorno a questa concezione che si può definire sicuramente aristotelica, non costituisce una rottura con S. Agostino: infatti anche per lui il termine persona indica una sostanza individuale e quindi può essere applicato al singolo uomo, però non può essere applicato alle tre persone della SS. Trinità poichè in esse si dà una distinzione per relazione e non una distinzione assoluta.  Per contro S. Agostino si era soffermato più sull’idea di uomo come “immagine di Dio” ed aveva utilizzato la triade “memoria”, “intelletto” e “volontà” per farne una corrispondenza analogica con la SS. Trinità.
Venendo dunque alla definizione di persona, evidentemente essa compete a una sostanza individuale, nel senso che non può essere universale (cioè non applichiamo la persona all’umanità o alla cavallinità...), ma inoltre deve essere una sostanza “particolare” che ha caratteristiche incomunicabili ed uniche, non predicabili ad altri individui della stessa specie.

Per quanto riguarda il concetto di natura, Boezio analizza diverse definizioni: la prima è: “ciò per cui una cosa che esiste può essere compresa dall’intelletto”, la seconda è: “ciò che può agire o patire”, la terza: “il principio del movimento per sè e non per accidens” ed infine la quarta: “la natura è la differenza specifica che informa ogni cosa”.
Per lui la definizione più adeguata, di origine aristotelica, è quest’ultima poichè la ritiene più completa contenendo sia un aspetto fisico, che uno metafisico e logico: la natura è quindi sia il principio per il quale una cosa è quella che è ed in ciò si distingue dalle altre, sia un soggetto di proprietá, comprendendo perciò sia sostanze che accidenti.
Con un processo discendente che richiama l’albero di Porfirio, neoplatonico, per scomposizione Boezio giunge alla definizione specifica di “natura razionale”. Le dicotomie per le quali passa sono: sostanza – accidenti, corporeo – incorporeo, vivente – non vivente, sensibile – insensibile, razionale – irrazionale, mutevole – immutevole. Quindi la specificazione completa sarebbe: “natura sostanziale corporea vivente sensibile razionale mutevole”.

Nel porre dunque in relazione i due concetti di persona e di natura,  Boezio parla allora di: “sostanza  individuale” di “natura razionale”. Non è la natura razionale ad essere sostanza individuale, ma è la sostanza individuale ad essere di natura razionale. Se non fosse così ad ogni natura razionale corrisponderebbe una sostanza individuale ed allora in Cristo, essendoci due nature, ci dovrebbero essere due persone. Quanto detto gli serve per controbattere l’eresia di Nestorio.
Contro Eutiche invece, che affermava che in Cristo c’era una sola persona, ma partendo da due nature, Boezio oppone un ragionamento per assurdo con il quale nega ogni possibilità di arrivare ad un’unica natura partendo da due: non potendo la natura umana trasformarsi in divina (poichè le due nature non hanno nulla in comune), tantomeno il viceversa, e non potendoci inoltre essere confusione tra natura creata e natura increata, non resta che accettare che in Cristo c’è realmente sia la natura umana (se così non fosse Dio ci avrebbe ingannato a mostrarcelo tale), che la natura divina.

Per concludere, la definizione di Boezio ha avuto senz’altro il merito di aver costituito il primo serio tentativo di sistematizzazione dei concetti con un metodo di analisi approfondito e, nonostante i suoi limiti, continua tuttora ad essere utilizzata. Tali limiti, che sono stati presto evidenziati dai suoi successori, sono sostanzialmente due: il primo (applicando anche a Dio e agli angeli il concetto di persona) è quello di  attribuire loro una natura razionale, il secondo è la difficoltà a trasferire in ambito trinitario un concetto di persona elaborato come sostanza individuale, perdendosi in tal modo l’aspetto di relazione, evidenziato bene da S. Agostino. Per il primo limite però si può sicuramente dire che la natura razionale è quanto di più vicino a Dio può esserci tra le creature ed inoltre tale razionalità deve essere intesa più come intelletto, che come capacità di ragionamento. Per il secondo invece si tratta effettivamente di cercare di conciliare i due aspetti di sostanza e di relazione nel parlare delle persone della SS. Trinità.

Nello studio della nozione di persona secondo S. Tommaso, consideriamo le motivazioni che egli dà per accettare la definizione di Boezio. In tutte le sue opere S. Tommaso ritiene valida detta definizione e la difende contro i suoi critici, anche se nelle sue opere si può notare una diversità di impostazione nella specificazione di individualità della sostanza tra il Commento alle Sentenze da una parte e la Somma Teologica e le Questioni sulla Potenza di Dio dall’altra. In ogni caso partendo dall’analisi dei termini che compaiono nella definizione si può giungere alla comprensione più piena della definizione stessa.
Soffermiamo la nostra attenzione sui primi due termini della definizione “sostanza individuale”, che ci vengono fatti considerare attraverso i cinque passi tratti dalle opere di S. Tommaso.

ST, I, q. 29, a. 1, c: “Anche se l’universale e il particolare si trovano in tutti i generi, tuttavia l’individuo si trova nel genere della sostanza in un certo modo speciale. La sostanza infatti si individua per se stessa, mentre gli accidenti si individuano per il soggetto, che è la sostanza. Si dice infatti ‘questa bianchezza’ in quanto è in questo soggetto. Di conseguenza, conviene che le sostanze individuali abbiano anche un nome speciale rispetto alle altre: sono chiamate infatti ‘ipostasi’ oppure ‘sostanze prime’.”
Questo primo testo centra già completamente il problema di intendere i termini di “sostanza individuale”; sapendo infatti che il termine “sostanza”, preso isolatamente, significa “ciò che sussiste” – e quindi differisce da accidente, che invece è ciò che sta in un altro soggetto –, l’aggiungere “individuale” significa considerare la sostanza singolare individuata nell’ente concreto e non la sostanza universale predicabile di tutti gli enti della stessa specie. S. Tommaso sottolinea qui il fatto che l’individualità compete in modo speciale proprio alla sostanza in quanto che essa è il soggetto di tale individualità, mentre l’accidente, che pure viene individuato, non lo è in quanto soggetto, ma in quanto appartenente ad un soggetto. S. Tommaso precisa inoltre che a tali sostanze viene dato il nome di “ipostasi” o “sostanze prime” per distinguerle dalla sostanza generica predicabile di più enti della stessa specie a cui viene dato il nome di “sostanza seconda”.

In III Sent., d.5, q. 1,a. 3, c: “Poichè l’essere indistinto è incompleto, come un ente in potenza, perciò l’uomo non sussiste, ma questo uomo, al quale conviene la nozione di persona.”
Questo secondo testo precisa ulteriormente quanto appena detto, infatti S. Tommaso precisa come il termine di persona non compete all’uomo in generale, ma al singolo uomo in quanto soggetto concreto, poiché l’uomo generico non è un ente completo, ma è come un ente in potenza, non essendo ancora sussistente in atto. In questo testo viene quindi introdotta in modo esplicito una condizione necessaria per poter avere un individuo concreto sussistente: la completezza dei suoi principi, come vedremo anche più avanti.

In IV Sent., d. 12, q. 1, a. 1, C, c: “Due aspetti corrispondono alla nozione di individuo: essere un ente in atto – in se o in un altro – ed essere diviso dagli altri che ci sono o possono esserci nella stessa specie, esistendo come indiviso in se stesso.”
Il terzo testo si riferisce ai due diversi modi di predicare l’individualità: che sono l’essere un ente in atto – come è per la sostanza individuale o anche gli accidenti individuali – e l’essere diviso dagli altri che ci sono o possono esserci nella stessa specie, esistendo come indiviso in se stesso. Nel primo modo quindi l’individualità viene intesa nel modo di ente concreto singolare in opposizione ad universale come soggetto concreto che ha l’essere ed è in atto, nel secondo modo viene considerata l’individualità come proprietà che rende ogni ente “diverso” o “diviso” dagli altri enti della stessa specie. Lo sviluppo di queste due accezioni ci può portare a considerare quelle che per S. Tommaso sono le proprietà che devono essere considerate esplicitamente per avere una nozione corretta di individuo, cioè l’integrità, la sussistenza e l’incomunicabilità.
Integrità e sussistenza si può dire che siano richieste dal primo modo di intendere l’individuo e cioè l’essere in atto; infatti l’essere in atto è proprio dell’ente integro di tutti i suoi principi, per cui qualora ad un ente mancasse qualcuno dei suoi principi – come succede ad esempio nell’anima separata, alla quale manca il corpo – non si potrebbe dire che sia perfettamente individuo. Lo stesso dicasi della sussistenza che compete propriamente all’ente in atto: cioè se una sostanza, pur avendo tutti i principi, non è sussistente per sé – come avviene per la natura umana di Cristo, che invece sussiste ipostaticamente nella natura divina – non è un individuo perfetto, e quindi non è persona.
Il secondo modo di intendere l’individualità ci porta invece a considerare l’incomunicabilità come caratteristica essenziale per un individuo perfetto: infatti per essere indivuduo un ente oltre che essere uno in se stesso deve anche essere in qualche modo distinto dagli altri, cioè deve possedere qualcosa di non comune agli altri. Per gli enti materiali il principio di individuazione è la materia “signata quantitate”, per gli angeli il principio di individuazione è la stessa specie. In Dio invece la natura divina essendo puro atto di essere, dovrebbe anche essere individuo e persona, invece l’individuo e quindi la persona competono al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo che differiscono per le relazioni reciproche ed in questo aspetto sono incomunicabili.

QDP, q. 9, a. 1, ad 3: “Come è proprio della sostanza individuale l’esistere, così è proprio ad essa l’agire per se: nulla agisce se non l’ente in atto.”
In questo quarto testo si mette in relazione l’agire con l’essere in atto, vale a dire che l’agire compete solo agli enti sussistenti: un ente che sia in potenza non può ancora agire, ma è solo passibile di mutamento, in quell’aspetto nel quale è in potenza, mentre può agire secondo ciò che è in atto. In questo testo si può intravedere anche il motivo per il quale S. Tommaso accetta nella definizione di Boezio il termine “natura” piuttosto che quello di “essenza”, che per alcuni aspetti possono essere considerati sinonimi, senonchè il termine natura fa proprio riferimento al principio dell’agire. Viene quindi sottolineato l’aspetto secondo il quale la sostanza individuale diventa principio di operazioni, che poi, essendo di natura razionale, sono azioni che trovano in sé il loro stesso principio: infatti nell’indicare che si tratta di una sostanza che agisce per se, intende riferirsi alla persona, altrimenti una sostanza individuale qualsiasi, pur potendo agire, non necessariamente agirebbe per se.

ST, I, q. 75, a. 2, c: “Nulla può agire per se stesso se non quello che sussiste per se stesso. In effetti l’agire non appartiene che all’ente in atto, e quindi qualcosa agisce nel modo in cui ê.”
Nell’ultimo testo viene ribadito in altro modo quanto affermato sopra e cioè il fatto che l’agire compete solo all’ente che è in atto, e tanto più l’agire per se stesso, cioè l’agire che ha in se stesso la propria causa – quale è la persona che è di natura razionale – , può competere solo ad un ente che sussiste per se stesso.

Per concludere, possiamo dire che questi testi evidenziano il modo nel quale S. Tommaso intende che la persona sia sostanza individuale. Come dicevamo all’inizio si possono cogliere due sfumature diverse di intendere l’individualità: da una parte come un “accidente” o “intenzione” di sostanza, cioè come una specificazione modale del modo di darsi della sostanza, o come modo di significare la sostanza; dall’altra invece come soggetto individuale o ipostasi. Il primo di questi due modi è quello che meglio si presta anche alla spiegazione del motivo per cui è possibile dare una definizione di persona, pur essendo questa un individuo. Infatti dell’individuo non è possibile dare la definizione. Però, nel nostro caso noi non stiamo dando una definizione dell’individuo, nel senso del principio del modo di esistere singolare, bensì definiamo l’individualità come una caratteristica intenzionale della sostanza e perciò come qualcosa di comune a molti. In questo senso, secondo l’impostazione cosiddetta “latina”, si può dire che nella definizione di Boezio la sostanza fa la parte del genere, la natura razionale fa la parte della specie e l’individualità corrisponde al modo di significare la sostanza.

ST, I, q. 29, a. 1, c: “Anche se l’universale e il particolare si trovano in tutti i generi, tuttavia l’individuo si trova nel genere della sostanza in un certo modo speciale. La sostanza infatti si individua per se stessa, mentre gli accidenti si individuano per il soggetto, che è la sostanza. Si dice infatti ‘questa bianchezza’ in quanto è in questo soggetto. Di conseguenza, conviene che le sostanze individuali abbiano anche un nome speciale rispetto alle altre: sono chiamate infatti ‘ipostasi’ oppure ‘sostanze prime’. Ma ancora in un certo modo più speciale e più perfetto si trova il particolare e l’individuale nelle sostanze razionali, che hanno dominio del proprio atto e non solo sono mosse ad agire, come le altre, ma agiscono per se stesse: le azioni sono infatti nei singolari. Perciò, anche fra le altre sostanze, i singolari di natura razionale hanno un certo nome speciale, e questo nome è ‘persona’. Di conseguenza, in suddetta definizione si pone ‘sostanza individuale’ in quanto significa il singolare nel genere della sostanza; e si aggiunge ‘di natura razionale’ in quanto significa il singolare nelle sostanze razionali.”
La prima parte di questo articolo era già stata commentata per evidenziare l’importanza di cogliere pienamente il significato di sostanza individuale. Ora, nella seconda parte, S. Tommaso, in analogia con quanto detto nella prima parte, mette in evidenza come, tra tutte le sostanze individuali, spetti una rilevanza speciale a quelle che agiscono in un modo speciale, cioè quelle che agiscono completamente per se stesse.
Tale modo di agire, che è proprio delle sostanze di natura razionale, qualifica in modo speciale dette sostanze, che quindi sono chiamate ‘persone’. Arrivati a questo punto è importante addentrarsi nell’analisi dell’agire per se stesse, considerando i diversi modi di agire. Innanzi tutto qualsiasi sostanza prima, cioè in atto, può comunque agire secondo la sua natura; poi possiamo, in un primo caso, distinguere tra sostanze inanimate e sostanze animate; successivamente, tra le sostanze animate, possiamo distinguere diversi tipi di movimenti ed azioni, secondo una maggiore autonomia e perfezione.

SCG, IV, 11, nn. 1-5: “Quanto più una natura è alta, tanto più è intrinseco ad essa ciò che ne emana. Infatti tra tutte le cose occupano il gradi infimo i corpi inanimati: e in essi non possono esserci altre emanazioni all’infuori dell’azione dell’uno sull’altro. (…) E tra i corpi dotati di vita i più vicini ai precedenti sono le piante, nelle quali c’è un’emanazione che procede dall’interno: (…) questa tuttavia uscendo gradatamente dall’interno all’esterno, finisce del tutto come qualcosa di estrinseco. (…) Anzi, se si considera bene la cosa, si nota che il primo principio di quest’emanazione parte dall’esterno. (…) Al di sopra della vita delle piante si riscontra un altro grado di vita superiore, che dipende dall’anima sensitiva: e l’emanazione propria di esso, sebbene parta dall’esterno, termina all’interno, e più codesta emanazione si svolge, più interno è il termine che raggiunge. (…) Tuttavia in ogni tappa di codesto processo il principio ed il termine appartengono a facoltà diverse: poiché nessuna potenza sensitiva riflette su se stessa. Perciò questo grado di vita è tanto superiore alla vita delle piante, quanto più intime sono le facoltà in cui si svolgono le funzioni della vita sensitiva: però non è una vita del tutto perfetta, perché ogni emanazione è un passaggio da una facoltà all’altra. Quindi il supremo e perfetto grado di vita è quello di ordine intellettivo: poiché l’intelletto riflette su se stesso, e può intendere se stesso”.
In questo testo S. Tommaso distingue i vari gradi di azione secondo il principio ed il termine dell’azione stessa.; vengono considerate quattro possibilità:

  1. per i corpi inanimati principio e termine sono esterni
  2. per le piante si ha principio interno (anche se non del tutto) e termine esterno
  3. per gli animali possono essere entrambi interni ma riguardando facoltà diverse
  4. per le persone che hanno intelletto si ha un’azione riflettente su se stessa.

Penso che a questo punto valga la pena considerare che S. Tommaso nel fare queste considerazioni sulle piante e gli animali aveva presente le conoscenze di zoologia e botanica della sua epoca e probabilmente al giorno d’oggi non avrebbe forse avanzato queste stesse classificazioni; quelli che comunque rimangono validi sono, oltre ai termini iniziale e finale, le gradualità di azioni e movimenti che si hanno nelle diverse specie viventi: dalla nutrizione, crescita, riproduzione con nascita e morte che si ha per tutte, si passa ad una certa gradualità nella vita sensitiva che può essere più o meno sviluppata con organi specifici di senso che permettono rappresentazione, memoria e intenzione nelle azioni.
Nei processi vitali di base, comuni a tutti i viventi (ed in particolare propri delle piante), si hanno quindi dei movimenti che partono dall’interno del soggetto ed hanno conseguenze sulla realtà esterna sia come movimento delle parti del soggetto nell’ambiente circostante, che come svolgimento dei processi vitali che avvengono all’interno del soggetto stesso: è evidente che tali processi sono condizionati dalla presenza di fattori esterni favorevoli ed in tal senso possono essere visti come reazioni del soggetto agli stimoli di un’ambiente esterno. Già Aristotele distingueva nel vivente la presenza di azioni transitive, come quelle viste sopra, ed operazioni immanenti, che invece assegna agli animali: le une modificano la realtà esterna, avvengono nel tempo ed hanno una finalità estrinseca all’azione; le altre hanno fine all’interno del soggetto ed avvengono istantaneamente senza produrre effetti sulla realtà esterna. Come si diceva, Aristotele e S. Tommaso assegnano agli animali, in quanto dotati di sensibilità, la capacità di operare azioni immanenti (anche se pare che anche almeno alcune piante siano dotate di sensibilità); comunque non è facile la classificazione poiché nessuno può propriamente sperimentare le operazioni conoscitive di un altro soggetto, sia esso pianta, animale o uomo, se non indirettamente attraverso le reazioni che tali soggetti hanno alla conoscenza, quindi attraverso le loro azioni transitive successive.
Se dunque si considerano anche gli aspetti sensitivi, in presenza di un apparato sensitivo più o meno differenziato e sviluppato, abbiamo operazioni immanenti che terminano nel soggetto in modo più o meno elaborato, con la rappresentazione sensibile e la memoria di quanto è acquisito dai sensi; a partire da qui l’animale è in grado di compiere azioni che hanno origine interna anche per quanto riguarda il principio o la forma precedentemente acquisita attraverso i sensi. La forma conosciuta viene appresa attraverso l’organo di senso e presentata alla facoltà immaginativa che a sua volta la trasferisce alla memoria e alla facoltà appetitiva e da questa alla facoltà motrice. In questo processo si ha il passaggio da una facoltà all’altra ed inoltre il processo stesso è determinato dalla natura (o istinto naturale) per cui il soggetto non è propriamente padrone dei suoi atti, ma agisce più come causa strumentale. Poiché comunque non tutti gli animali della stessa specie reagiscono allo stesso modo di fronte agli stessi stimoli, si può dire che ci sia un certo apprendimento, favorito dalla natura e dall’istinto, ed una certa libertà partecipata (nel senso di azione non determinata necessariamente).
Nel caso dell’uomo, la forma sensibile appresa attraverso gli organi di senso, subisce un processo di astrazione ad opera dell’intelletto agente; quest’ultimo coglie la specie intelleggibile universale presente in potenza nella specie sensibile e la rende intelleggibile in atto nell’intelletto passivo che la riceve. Questa operazione è più propriamente immateriale ed è paragonata ad una sorta di “illuminazione” e partecipazione dell’intelletto divino. In questo caso si ha il più alto grado di immanenza poiché la forma o principio è emanata dal soggetto stesso, che quindi diventa padrone dei suoi atti. Detto in altri termini, l’animale non sa di sapere e non può riflettere sui dati acquisiti attraverso i sensi, poiché questi non hanno l’universalità propria delle specie intelleggibili. Solo l’uomo ha un’autonomia piena nell’azione, poiché riflettendo presenta a se stesso la forma ed il fine delle proprie azioni, per questo l’agire completamenete per se stesso spetta solo agli esseri di natura razionale e intellettiva.

In De An., l. 2, lec. 5, n. 5: “Secondo l’essere materiale – che è costretto dalla materia – , ogni cosa è soltanto ciò che è, come un sasso non è altro che un sasso. Invece, secondo l’essere immateriale – che è ampio e in un certo modo infinito, in quanto non determinato dalla materia – una realtà non è soltanto ciò che è, ma in un certo modo è anche le altre realtà”.
In questa affermazione si fa riferimento alla capacità del soggetto di rapportarsi, attraverso la conoscenza, con il mondo circostante, ricevendo da esso gli stimoli delle proprie sensazioni ed elaborando quindi una rappresentazione immanente della realtà che lo circonda. In tal modo la realtà circostante è presente in modo intenzionale nel soggetto che la conosce ed il soggetto è portato a muoversi o reagire nei confronti della realtà conosciuta, che lo arricchisce. Evidentemente tale arricchimento è maggiore sia nella misura in cui esso partecipa della universalità (non è la stessa l’immaterialità della conoscenza sensibile rispetto a quella intellettiva), sia nella misura in cui esso è consapevole, cioè frutto di una riflessione sulla portata della propria relazione con la realtà esterna, dando origine ad un mondo interiore fatto di aspettative, progetti, realizzazioni ed affetti in costante rapporto di scambio con la realtà circostante.

QDV, q. 24, a. 1, c: “Libero è quello che è causa di sé, secondo il Filosofo nel principio della Metafisica. Fra quelle cose che hanno in se stesse il principio del movimento e dell’opera, alcune sono tali da muovere se stesse, come gli animali, mentre altre non muovono se stesse (…). Tuttavia fra quelle che sono mosse da loro stesse, in alcune i movimenti provengono dal giudizio della ragione, mentre in altre dal giudizio naturale. Gli uomini agiscono e si muovono a partire dal giudizio della ragione: riflettono infatti su quello che debbono fare. Invece tutti gli irrazionali agiscono e si muovono a partire dal giudizio naturale (…). Gli irrazionali non giudicano sul loro giudizio, ma seguono il giudizio inserito in loro da Dio. E così non sono causa del loro arbitrio né hanno libertà di arbitrio. L’uomo invece, giudicando su ciò che deve fare per mezzo della capacità razionale, può giudicare sul suo arbitrio, in quanto conosce la ragione di fine e di ciò che è rispetto al fine, e la disposizione e l’ordine di uno verso l’altro: e perciò non è soltanto causa di se stesso nel muoversi, ma nel giudicare, e quindi ha libero arbitrio, che è lo stesso di dire che ha giudizio libero su agire o non agire”.
In quest’ultimo testo viene messa particolarmente in evidenza la capacità dell’uomo di essere padrone dei propri atti, attraverso la volontà libera illuminata dall’intelligenza. Questa completa padronanza del proprio agire, cui consegue la responsabilità e quindi il merito o il demerito, è ciò che fa sì che si possa dire che alla sostanza di natura razionale compete completamente l’agire per se stessa: infatti l’azione ha nel soggetto oltre al principio, anche il fine liberamente scelto, come conseguenza di un giudizio autonomo. Dal punto di vista della cusalità dell’azione competono quindi al soggetto sia la causa efficiente e formale, che la causa finale, decisa con il libero arbitrio e non determinata da un’istinto naturale, anche se evidentemente l’istinto od i condizionamenti esteriori possono esercitare un’influsso sull’azione stessa, che però è qualificata propriamente come atto umano solo quando non perde la propria autonomia. Evidentemente questo significa che possono anche esserci situazioni accidentali nelle quali un uomo può trovarsi in situazioni di non piena coscienza, ma questa è una situazione di eccezionalità rispetto ad una abituale condizione di avvertenza e consenso nel compimento delle proprie azioni.
In conclusione si può dire che in questi testi viene giustificata l’affermazione che la persona è una sostanza individuale di natura razionale, caratterizzata dalla particolarità di poter agire per se stessa. Nel testo della Summa Contra Gentiles vengono evidenziati più gli aspetti relativi all’essere intellettuale che si trova all’apice di una gradualità di modi di operazione immanenti, propri degli esseri viventi; nel testo del commento al De Anima di Aristotele, viene sottolineata l’immaterialità e quindi una certa apertura all’infinito che caratterizza l’intelligenza umana; ed infine nell’ultimo testo si prende in considerazione la libera volontà, come massima capacità di autonomia nell’azione. Evidentemente questa libertà o padronanza delle proprie azioni non significa che l’uomo non sia a sua volta soggetto ad una natura, che lo vincoli ad operare secondo le sue facoltà, e ad una legge. Infatti intelletto e volontà sono determinati l’uno dai primi principi e l’altra dalla necessità di conoscere la verità e di fare il bene.